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La casa al confine del cortile

Non facemmo in tempo a dirci addio; fu un attimo: l’ombra di un volto dietro la finestra, una mano che si agita in un saluto da libellula, la risata che abbiamo condiviso solo ieri.

Era nostra quella casa al confine del cortile, la casa rossa di mattoni dove tanto giocavamo a fare i genitori: io ero la madre e tu il padre che torna da lavoro – nessun figlio ad aspettare la cena, seduto a una tavola vuota. – La casa non aveva mobilia, la luce entrava dai solchi nel muro e non v’era una porta, ma solo il contorno d’una bocca spalancata.

Tu eri il padre che amava la madre e ogni giorno le portava in dono dei fiori – quello era reale, mi ricordo. – Se mancava il vaso in cui riporli noi lo inventavamo: bastava un gesto, un simulacro che ignorasse il vuoto attorno. Riempire uno spazio non ha a che fare con gli oggetti: noi lo sapevamo; adesso fatichiamo a ricordare come si colma un vuoto, adesso abbiamo un disperato bisogno che quel vaso esista – vederlo, toccarlo, sapere che la casa in cui torniamo la sera non è vuota.


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