All'amica risanata
- Ugo Foscolo
- Sep 27, 2017
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Qual dagli antri marini l’astro più caro a venere co’ rugiadosi crini fra le fuggenti tenebre appare, e il suo viaggio orna col lume dell’eterno raggio;
sorgon così tue dive membra dall’egro talamo, e in te beltà rivive, l’aurea beltate ond’ebbero ristoro unico a’ mali le nate a vaneggiar menti mortali.
Fiorir sul caro viso veggo la rosa, tornano i grandi occhi al sorriso insidiando, e vegliano per te in novelli pianti trepide madri, e sospettose amanti.
Le Ore che dianzi meste ministre eran de’ farmachi, oggi l’indica veste e i monili cui gemmano effigiati Dei inclito studio di scalpelli achei,
e i candidi coturni e gli amuleti recano, onde a’ cori notturni te, Dea, mirando obliano i garzoni le danze, te principio d’affanni e di speranze:
o quando l’arpa adorni e co’ novelli numeri e co’ molli contorni delle forme che facile bisso seconda, e intanto fra il basso sospirar vola il tuo canto
più periglioso; o quando balli disegni, e l’agile corpo all’aure fidando, ignoti vezzi sfuggono dai manti, e dal negletto velo scomposto sul sommosso petto.
All’agitarti, lente cascan le trecce, nitide per ambrosia recente, mal fide all’aureo pettine e alla rosea ghirlanda che or con l’alma salute April ti manda.
Così ancelle d’Amore a te d’intorno volano invidiate l’Ore. Meste le Grazie mirino chi la beltà fugace ti membra, e il giorno dell’eterna pace.
Mortale guidatrice d’oceanine vergini, la parrasia pendice tenea la casta Artemide, e fea terror di cervi lungi fischiar d’arco cidonio i nervi.
Lei predicò la fama Olimpia prole; pavido Diva il mondo la chiama, e le sacrò l’Elisio soglio, ed il certo telo, e i monti, e il carro della luna in cielo.
Are così a Bellona, un tempo invitta amazzone, die’ il vocale Elicona; ella il cimiero e l’egida or contro l’Anglia avara e le cavalle e il furor prepara.
E quella a cui di sacro mirto te veggo cingere devota il simulacro, che presiede marmoreo agli arcani tuoi lari ove a me sol sacerdotessa appari,
regina fu, Citera e Cipro ove perpetua odora primavera regnò beata, e l’isole che col selvoso dorso rompono agli Euri e al grande Ionio il corso.
Ebbi in quel mar la culla, ivi erra ignudo spirito di Faon la fanciulla, e se il notturno zeffiro blando sui flutti spira, suonano i liti un lamentar di lira:
ond’io, pien del nativo aer sacro, su l’itala grave cetra derivo per te le corde eolie, e avrai divina i voti fra gl'inni mei delle insubri nepoti.
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